giovedì 25 giugno 2009

Io, i granchi e l'Oceano Indiano


Un sole a fine pomeriggio ‘da cartolina’ che rende netto il profilo delle rocce, diventate improvvisamente scure, perché non sono più illuminate dalla luce solare; …ma poi l’attenzione viene distratta dalla vita che inizia a manifestarsi sul bagnasciuga: le lumachine di mare lasciate libere dalla bassa marea sullo scivolo arrugginito di barche fantasma; i granchi che compaiono all’improvviso, sbucando dalle vicine rocce o dalla sabbia.. . se accenni a muoverti rapidamente si infilano nella ‘tana’. Fotografarli non è facile perché ‘sentono’ una presenza. Allora bisogna immobilizzarsi, rinunciare alla fotografia sperata e cercata e con serenità guardare questi piccoli strani animali che sembra camminino a  ‘sghimbescio’, di lato, almeno così ci sembra, con una rapidità impensabile. E così il pensiero va alla vita che non sempre va avanti, ma a volte ha fatto il gambero oppure il granchio, muovendosi lateralmente, e non sempre parallelamente ad altre vite, anzi…in quante occasioni ti sei messo/a da parte con sofferenza per non intralciare altri. Sicuramente però hai fatto soffrire qualcuno, ma non lo sai o non te ne sei accorto/a e comunque pensi sempre, egoisticamente, che la tua sofferenza sia stata maggiore di quella che hai sicuramente inferto. Mettersi da parte, camminare a lato, allontanarsi...

Anche questa presenza sulle coste dell’Oceano Indiano è un movimento curioso, sembra proprio quello del granchio che scava sulla sabbia un buco perfettamente circolare nel quale si rifugia non appena intravede ombre, quelle ombre che vogliono rimanere immanenti e che dovrebbero essere scacciate con forza. Il sole quasi all’improvviso, come sempre avviene quando ci si avvicina all’Equatore, scompare e sembra che anche i granchi si nascondano o…. non si vedono più. Rimani a guardare il cielo, mentre dall’alto ti chiamano e ancora una volta ti riconducono alla realtà. Il Genio rapidamente ritorna nella sua Lampada: anche lui si nasconde veloce come un granchio,  ma sente che la sua mente  non si libera dai fantasmi che lo hanno voluto seguire anche qui. Genio, perché sei così pensieroso? Domani è un altro giorno? Che frase banale!

Firuzeh

 

Teheran, trent'anni dopo!

Settembre 1978 - 25 giugno 2009.
Non posso fare a meno di scrivere due righe su quello che sta accadendo in questi giorni a Teheran. La maggior parte dei giovani, che sono oggi nelle strade, sono nati meno di trenta anni fa, come lo era Neda, e non hanno visto quello che successe fra il 1978 e il 1979 a Teheran, a Shiraz, a Isfahan, a Rasht, e Abadan.
Sto vedendo in televisione un film già visto e vissuto in prima persona e ne sono profondamente amareggiata. Anche allora negozi e banche messe a fuoco; spari fra la folla; fiori nei fucili dei giovani soldati mandati nelle strade per mantenere l'ordine pubblico: i genitori di questi giovani di oggi, che erano allora per le strade, erano sicuri di aver scacciato un tiranno e di avere affossato un regime sanguinario.
Una notte di dicembre salì verso il nord di Teheran, come una onda, l'urlo Allah'u'akbar, di coloro che sui tetti delle basse case locali, avevano trovato un altro modo di manifestare il loro dissenso, oltre a scendere in piazza e a morire come era successo a Meidan-e-Jaleh, l'8 settembre 1978. Un urlo che diventava via via sempre più impressionante e potente fino ad arrivare alle eleganti ville di Shemiran, dove vivevano la maggior parte dei diplomatici stranieri. Io vivevo invece piuttosto in basso nella città e il mio telefono squillava continuamente nelle sere di coprifuoco, perché chi era in alto voleva notizie in anteprima su quel che stava succedendo a sud della città.
Ricordo quella notte quando questo 'rumore' saliva come una onda gigantesca e non se ne capiva il significato fino a quando non ti raggiungeva...quante telefonate preoccupate ricevetti da persone che erano spaventate da questo rumore indefinibile...per alcuni aspetti agghiacciante.
Ho letto che di nuovo i manifestanti non solo sono scesi nelle piazze ma alcune notti avrebbero fatto esattamente come i loro genitori, quando erano giovani e pieni di speranze.
Non so cosa aveva fatto il padre di Neda in quel 1978, quando probabilmente aveva venti o trenta anni: sicuramente non avrà mai pensato che dopo molto tempo avrebbe perso la figlia in dimostrazioni che ricordano troppo da vicino quelle che portarono alla fine della monarchia Pahlavi in Iran.
L'Iran è uno splendido paese con antica cultura e tradizioni. Stavo meditando di tornarci, dopo tanto tempo, perché non posso dimenticare i dolci freschi pomeriggi passati a prendere il thé a Durband, a nord di Teheran, seduta su un takté (un divano di legno orientale), vedendo scorrere un rio d'acqua limpida e gelata che veniva dal monte Damavand.
Le scene di questi giorni che la televisione ci elargisce e gli appelli dei blog da Teheran mi stanno addolorando, facendo ancora una volta riemergere tanti ricordi. Speravo anche io un cambiamento democratico, dopo un periodo di assestamento fisiologico post-rivoluzionario.
Pochi stanno parlando di quello che successe allora, anche perché i giornalisti che coprirono quegli avvenimenti sono in gran parte scomparsi. Due sono ancora in attività e scrivono: nelle loro parole ritrovo analisi di avvenimenti che comprendo e condivido in pieno. Gli attuali inviati speciali sono giovani anche loro e nel dare le notizie credono di aver scoperto qualcosa di nuovo, così come stava succedendo a me, che con beata incoscienza, ma con tanta curiosità, mi aggiravo nelle strade, durante le dimostrazioni, e rientravo in ufficio emozionata, con notizie da dare. Anche io avevo ancora la mia vita in mano con un gran fascio di speranze e determinazioni.
Oggi quel tempo è passato.
Firuzeh


martedì 23 giugno 2009

Una seconda sera sull'Eufrate, 'dopo'...

Una sera livida, come le nostre menti: le fotoelettriche illuminavano la palazzina distrutta, perché le luci di Base Maestrale si erano spente per sempre. Uno strano silenzio, forte come può essere un silenzio gravido di dolore, di tanta rabbia e di un senso di impotenza. Lo sguardo era fisso su quell'angolo di mondo violentato nella mattinata. La sera precedente venivano echi di musica da quella palazzina. Ventiquattro ore dopo un silenzio irreale e volti scavati: sguardi profondi. E' in questi casi che la maschera della vita quotidiana cade: e la tua vera personalità e maturità esce fuori...la professionalità e la vita vissuta certamente ti aiutano a mantenerti lucido e operativo.
E' stato duro affrontare le ore che seguirono all'attentato, sapendo razionalmente che 'era successo', ma rifiutando emotivamente di crederci; la necessità e la volontà ferma di continuare a lavorare erano le uniche possibilità di 'andare avanti'. 
Nella Base Libeccio, anch'essa ferita dall'attentato, non esistevano più finestre; gran parte delle porte erano divelte, così come moltissimi infissi. Alcune schegge di vetro si erano conficcate nel muro come pugnali lanciati a grande velocità. Nel toglierle, pezzetti di quel muro si staccavano e la mente subito visualizzava uno di questi proiettili in corsa: fortunatamente nessuno di essi aveva avuto un effetto mortale, solo perché non aveva trovato un essere umano sulla sua traiettoria: l'avrebbe trapassato e forse ucciso, se solo avesse toccato punti sensibili.  Computer rovesciati, seggiole rotte; per terra macchie di sangue di chi era stato comunque ferito dagli effetti dirompenti di una deflagrazione violenta, anche se a relativa distanza, cioè 'dall'altra parte del ponte'. Il resto della giornata, dopo il 'fatto' era trascorso con la determinazione di agire per non pensare: era troppo doloroso 'pensare' . Meglio raccogliere vetri infranti, risistemare uffici, considerato che altro non potevo fare; togliere polvere, lavare il sangue dai pavimenti. Aiutare a ritornare ad una parvenza di normalità quotidiana e giornaliera...per quel che era possibile. E mentre per rendermi utile facevo fotocopie e mi ero improvvisata usciere porta-carte, vedevo l'aggiornamento della lista dei morti e dei feriti e ogni tanto l'arrivo di una piastrina di riconoscimento, di un oggetto...l'apertura di una pratica, con un contenitore contrassegnato da un nome e una croce e una busta dove a mano a mano finivano gli oggetti personali  ritrovati 'al di là' del ponte.
Così il tempo passava e si arrivò a metà pomeriggio, quando con pragmaticità militare, condita da una buona dose di umanità, ancorché ferita, arrivarono dei panini, che i cuochi della Base, dopo un turno di guardia, avevano voluto fare per riproporre appunto una ripresa di normalità di vita. Lo stomaco era chiuso e quel panino che mi costrinsero a mangiare, l'ho trangugiato e non ricordo cosa vi fosse dentro.
Il mattino dopo, sotto un cielo azzurro come le cupole delle moschee sciite, le orbite vuote di Base Maestrale, spazi ormai aperti, trapassavano a mò di spade l'atmosfera, ricordo vivo e costante di un evento tragico forse preannunciato, ma non atteso.
Di fronte ad un pugno di terra raccolta lì, tra le macerie della palazzina, terra che qualcuno, intuendo un tuo desiderio non espresso per pudore di sentimenti, ti ha portato in un contenitore di fortuna dal coperchio arrugginito, tanti ricordi riemergono ogni volta che riprendi in mano quella terra senza significato per altri, ma che per te rappresenta una prova di vita.
Non sono riuscita a versare lacrime, nemmeno nella Basilica di San Paolo, quando entrarono, avvolti nella bandiera tricolore, 'coloro' con i quali avevo avuto un appuntamento non onorato. Non ricordo i discorsi che furono fatti in quella occasione: me ne stavo rannicchiata su una seggiola e quando la cerimonia finì, li seguii con lo sguardo fino all'uscita e qualcosa si sciolse solo quando abbracciai alcuni dei sopravvissuti, ma ancora nessuna lacrima.
Quel giorno sono tornata a casa a piedi, dalla Basilica al Vaticano: non ricordo come...perché continuavo ad essere lì, sulle rive dell'Eufrate. La mia mente è tornata solo quando, dopo cinque mesi, il regolare avvicendamento riportò in Italia degli amici che erano rimasti ad operare di fronte ai resti della palazzina devastata.
Le lacrime mi avrebbero aiutato a metabolizzare prima quanto avevo vissuto, ma è passato quasi un anno prima che, al pensiero di quanto era successo, riuscissi a piangere.
E la vita è ricominciata. E' vero: non dovremmo guardarci indietro. I giorni passati sono candele ormai consumate, come ricordava Konstantin Kavafis in una sua poesia.
Firuzeh

lunedì 22 giugno 2009

Una rassegnazione antica


Mercato del pesce di Quriyat, un villaggio a pochi chilometri da Muscat, attuale capitale dell'Oman. Un edificio nuovo, con piastrelle bianche...ovviamente con un inconfondibile sgradevole odore di pesce e sangue marcio, rappreso a terra, a circa 45° all'ombra: tonnetti, squaletti, pesci vari grandi e piccoli. Chi puliva, chi sezionava con la seghetta elettrica gli esemplari di grande taglia. Presenza di ghiaccio in alcuni contenitori, ma la maggior parte della merce era in esposizione, senza alcun tipo di preservazione dal calore: poco pesce, per la verità, perché ormai alle 9 del mattino, parte degli acquisti erano già stati fatti. Ma proprio in questo mercato ho fatto un incontro 'umano', forse il più bello della mia permanenza in questo sultanato che una volta era composto da quello di Muscat, dall'Oman e dalla favolosa isola di Zanzibar.

Negli occhi degli anziani trovi spesso molti sentimenti non espressi: negli occhi di un vecchio pescatore di Quriyat ho visto un mondo e dal suo sorriso paziente ho ricevuto tanto.

Sapevo che non potevo fotografare le persone e quindi inquadravo solo il pescato. Poi la mia guida mi ha detto che potevo fotografare quel vecchio pescatore che sorridendomi alzava i vari pesci di fronte a lui. Un sorriso rassegnato, dolce, con gli occhi che però fissavano un tempo lontano, molto lontano: mi sentivo presente, ma trasparente e lo speravo quasi, perché mi ritenevo ormai fuori posto, turista insulsa, inutile, con il mio cappellino e la mia macchina fotografica, mentre lui con grande pazienza, questa volta guardandomi negli occhi, con una rassegnazione antica, sollevava un altro grande pesce per agevolarmi la foto.

Avrei voluto parlare con il vecchio pescatore, ma il dialogo non era possibile per tanti motivi…allora con i miei occhi e con un sorriso, forse triste (perché in quel momento lo ero diventata), ho cercato di trasmettere calore, amicizia, e tanta umana gratitudine per il suo gesto, non richiesto,  e il suo sorriso. Il mercato era svanito per me, come le persone attorno, calamitata da questa antica presenza. Non potevo parlarne con la mia guida, un giovanotto locale, con Ipod e telefono cellulare ultimo modello: non mi avrebbe capito. Una grande differenza fra vecchie e nuove generazioni.

Un attimo, forse qualche secondo...tornando poi alla realtà, ho chiesto alla guida se dovevo qualcosa al vecchio e dignitoso signore per la sua gentilezza, anche se mi sembrava proprio che non fosse il caso mettergli in mano una cifra, quale, poi? Infatti la guida mi ha detto di no. 

Uscendo dal mercato, mi sono voltata e di nuovo gli ho sorriso: non so se mi ha visto o se di nuovo guardava oltre gli umani come se essi fossero pure trasparenze.

Credo, spero di avere imparato qualcosa dal  sorriso di quell’uomo omanita, così lontano da noi nel tempo e nello spazio: il suo viso più che nella mia mente, si è stampato là dove i sentimenti sono ricchezza umana, anche se non li puoi esternare. 

Firuzeh

Gli occhi di un bimbo e il senso della vita

I bambini sono meravigliosi: i loro occhi, giovani e curiosi, sanno vedere quello che gli occhi di un adulto non vedono più... perché l'adulto ha visto molto, forse troppo, ma soprattutto crede di avere visto quasi tutto... e non si sofferma a vedere 'la farfalla sul fiore' considerando la bellezza dei colori che la natura offre, perché è troppo distratto dal corso della vita che ha vissuto e che pensa di vivere. Ho di nuovo riflettuto su questa mia convinzione da sempre, perché nel giro di una settimana due amici, di età assai diversa, mi hanno detto che sono una donna-bimba...la mia reazione all'amico più giovane di me che per primo mi ha scritto questa sua idea non è stata molto positiva quasi sentendo nelle sue parole una velata critica. 

La vita è molto, troppo difficile a volte e le delusioni sono profonde in molti settori e con molti amici; poi la curiosità, per quel che ci circonda, la voglia di conoscere e di imparare,  che altri forse sentono come dimostrazione di immaturità, ti aiutano a riprendere un percorso e soprattutto a valutare, ad esempio,  nei conoscenti e nei pochi amici veri solamente i loro lati positivi , cercando di mettere sotto al tappeto quelli negativi, come si fa  quando si vuole nascondere polvere di vario genere, per salvare l'affetto e la comunanza di interessi...se c'è. 

Dopo pochissimi giorni, un altro amico, più vecchio di me, mi ha ripetuto lo stesso commento di donna-bimba dicendomi, con la saggezza di chi ha vissuto almeno un decennio più di te, che questo era un grande dono che la natura mi ha regalato. 

Forse questo è uno dei tanti sensi della vita: continuare a guardare, quando possibile, con gli occhi curiosi e ingenui di un bimbo, insieme con un cuore di poeta. Non sei al riparo dai dolori e dalle delusioni, ma riesci ancora a 'vedere' intorno a te attraverso una lente di grande positività, che ti permette di gioire sempre e comunque, metabolizzando il negativo che ti circonda.  Cerco di far così: non sempre riesco a valutare tutto positivamente, ma quando i miei occhi si convertono in quelli di una 'bimba', allora sento che sto vivendo un momento speciale.

Firuzeh








 

 






martedì 2 giugno 2009

Un deserto dell'anima: la gelosia

La gelosia è un sentimento umano, comune, anzi comunissimo. A volte però diventa patologia che fa star male chi la prova e chi la subisce senza reagire, convertendo alternativamente i due soggetti implicati in vittima e carnefice.
La gelosia patologica (che in quanto patologica diventa persecuzione compulsiva), in una coppia, a volte per imporsi, tende ad annullare l'altro, l'oggetto del sentimento, ad annichilirlo al fine di continuare a detenerne il possesso. Far credere all'altro/a che è una nullità oppure che è all'origine di tutti i suoi mali fisici e morali, così da costringerlo/a in un angolo e instillargli con determinazione la falsa idea di essere veramente una persona cattiva o ingrata. Se poi l'altro/a ha fragilità psicologiche, l'obiettivo è raggiunto. Spesso la gelosia viene millantata come grande amore, conseguenza di un grande imperituro affetto che l'altro/a non capisce e che comunque riceve senza dare quanto ci si aspetta...ecco il vero problema.
E poi si fanno artatamente intendere  anche eventuali minacce di suicidio, raramente attuato, perché la gelosia patologica è un sentimento egoistico, che raramente porta alla distruzione di se stessi. Oppure dopo una scenata di gelosia, sempre allo scopo di riprendere il controllo dell'altro/a, si rifinisce la questione (ironicamente lo definerei 'siparietto') o incolpando l'altro/a di una solitudine ipotetica o invece dicendo all'altro/a che  si ha bisogno di quella persona, per sopperire ad alcune carenze che sono comuni ai due coinvolti. Spesso poi si affaccia il rancore, dopo la gelosia patologica: e poi di nuovo la gelosia, in una alternanza di disfacimenti di vita. Gli anni passano e il problema non viene risolto.
Il sentimento della gelosia è umano, ma serve la razionalità e l'intelligenza e un certo controllo su se stessi per ricondurla al giusto posto nei propri pensieri e nella propria vita. Per non avere una vita difficile e non renderla altrettanto difficile a chi crediamo di amare con tutte le nostre forze. 
L'amore è un sentimento che noi proviamo, coltiviamo, amiamo: non dovremmo mai imporlo all'oggetto del nostro amore. Se lo imponiamo, vuol dire che amiamo noi stessi più dell'altro/a.
Questo tipo di amore può far soffrire molto, ma riesce a far fiorire comunque l'anima, evitando il deserto dei sentimenti, che è angosciante e distruttivo.
Amore dovrebbe essere  dare, senza aspettare nulla in cambio... troppo spesso non è così.
Firuzeh