E' stato duro affrontare le ore che seguirono all'attentato, sapendo razionalmente che 'era successo', ma rifiutando emotivamente di crederci; la necessità e la volontà ferma di continuare a lavorare erano le uniche possibilità di 'andare avanti'.
Nella Base Libeccio, anch'essa ferita dall'attentato, non esistevano più finestre; gran parte delle porte erano divelte, così come moltissimi infissi. Alcune schegge di vetro si erano conficcate nel muro come pugnali lanciati a grande velocità. Nel toglierle, pezzetti di quel muro si staccavano e la mente subito visualizzava uno di questi proiettili in corsa: fortunatamente nessuno di essi aveva avuto un effetto mortale, solo perché non aveva trovato un essere umano sulla sua traiettoria: l'avrebbe trapassato e forse ucciso, se solo avesse toccato punti sensibili. Computer rovesciati, seggiole rotte; per terra macchie di sangue di chi era stato comunque ferito dagli effetti dirompenti di una deflagrazione violenta, anche se a relativa distanza, cioè 'dall'altra parte del ponte'. Il resto della giornata, dopo il 'fatto' era trascorso con la determinazione di agire per non pensare: era troppo doloroso 'pensare' . Meglio raccogliere vetri infranti, risistemare uffici, considerato che altro non potevo fare; togliere polvere, lavare il sangue dai pavimenti. Aiutare a ritornare ad una parvenza di normalità quotidiana e giornaliera...per quel che era possibile. E mentre per rendermi utile facevo fotocopie e mi ero improvvisata usciere porta-carte, vedevo l'aggiornamento della lista dei morti e dei feriti e ogni tanto l'arrivo di una piastrina di riconoscimento, di un oggetto...l'apertura di una pratica, con un contenitore contrassegnato da un nome e una croce e una busta dove a mano a mano finivano gli oggetti personali ritrovati 'al di là' del ponte.
Così il tempo passava e si arrivò a metà pomeriggio, quando con pragmaticità militare, condita da una buona dose di umanità, ancorché ferita, arrivarono dei panini, che i cuochi della Base, dopo un turno di guardia, avevano voluto fare per riproporre appunto una ripresa di normalità di vita. Lo stomaco era chiuso e quel panino che mi costrinsero a mangiare, l'ho trangugiato e non ricordo cosa vi fosse dentro.
Il mattino dopo, sotto un cielo azzurro come le cupole delle moschee sciite, le orbite vuote di Base Maestrale, spazi ormai aperti, trapassavano a mò di spade l'atmosfera, ricordo vivo e costante di un evento tragico forse preannunciato, ma non atteso.
Di fronte ad un pugno di terra raccolta lì, tra le macerie della palazzina, terra che qualcuno, intuendo un tuo desiderio non espresso per pudore di sentimenti, ti ha portato in un contenitore di fortuna dal coperchio arrugginito, tanti ricordi riemergono ogni volta che riprendi in mano quella terra senza significato per altri, ma che per te rappresenta una prova di vita.
Non sono riuscita a versare lacrime, nemmeno nella Basilica di San Paolo, quando entrarono, avvolti nella bandiera tricolore, 'coloro' con i quali avevo avuto un appuntamento non onorato. Non ricordo i discorsi che furono fatti in quella occasione: me ne stavo rannicchiata su una seggiola e quando la cerimonia finì, li seguii con lo sguardo fino all'uscita e qualcosa si sciolse solo quando abbracciai alcuni dei sopravvissuti, ma ancora nessuna lacrima.
Quel giorno sono tornata a casa a piedi, dalla Basilica al Vaticano: non ricordo come...perché continuavo ad essere lì, sulle rive dell'Eufrate. La mia mente è tornata solo quando, dopo cinque mesi, il regolare avvicendamento riportò in Italia degli amici che erano rimasti ad operare di fronte ai resti della palazzina devastata.
Le lacrime mi avrebbero aiutato a metabolizzare prima quanto avevo vissuto, ma è passato quasi un anno prima che, al pensiero di quanto era successo, riuscissi a piangere.
E la vita è ricominciata. E' vero: non dovremmo guardarci indietro. I giorni passati sono candele ormai consumate, come ricordava Konstantin Kavafis in una sua poesia.
Firuzeh
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