martedì 29 settembre 2009

Fuga da Itaca

E’ inutile fuggire. Come scriveva Konstantin Kavafis nel suo poema Ithaca a proposito di Ulisse e della sua isola dalla quale si allontanava sempre, Itaca siamo noi stessi e volercene andare non è altro che fuggire dai nostri problemi, tentare di cancellare errori e dolori con una fuga. Affrontarli è difficile, perdonarceli, ancora di più…Strani pensieri sulla sabbia di una piccola baia sull’Oceano Indiano verso il tramonto.

Può sembrare difficile vedere mare e cielo in bianco e nero, uniti in un mix tendente al grigio!! Ma se il sole è velato da una foschia originata da una forte calura giornaliera e, al tramonto, state guardando i profili delle rocce in controluce, ebbene i colori sfumano in varie tonalità di grigio. Le barche dei pescatori si stagliano contro il sole divenendo delle sagome nere dai contorni particolarmente nitidi. Incredibilmente credi di poter fissare il sole, anch’esso….d’un grigio quasi tenero. Sul grande scoglio di fronte a Ras Al Hamra, si posano altre piccole sagome, veloci: alcuni dei tanti uccelli che vivono tra gli alberi e i cespugli di questa spiaggetta tanto bella quanto maltenuta, con bottiglie di plastica buttate lì dopo un frettoloso bagno: niente di nuovo dunque nemmeno in questo lembo di Oceano Indiano. Però alzando lo sguardo verso uno sperone dove una volta c’era fino a poco tempo fa una villa d’altri tempi con gran giardino, e ora lo scheletro di un palazzo in costruzione, astraendosi dunque da ciò che è intorno a noi, torna l’incanto delle barche dei pescatori che cercano i granchi che vivificano le rocce e il bagnasciuga, delle lumache di mare attaccate a due lastroni di cemento armato arrugginito, che in altri tempi agevolavano la discesa a mare delle barche. Il tramonto, tenero e gentile in questa giornata afosa, nasconde le bottiglie di plastica e mette ancora una volta in risalto il profilo delle rocce. L'animo si calma e la mente si rasserena: la tempesta è dentro di noi, ma il vento sta calando; i ricordi si attenuano e sono lontani, non solo fisicamente...la notte scende rapidamente, come sempre, quanto più ci si avvicina all'Equatore. Il silenzio si affaccia timido sulla piccola baia e come miracoloso unguento orientale arriva sulle ferite dell'anima e le lenisce, sia pur per un poco. Sempre meglio così, vero mio amico Genio che rientri rapidamente nella Lampada, non appena senti odor di tristezze? Continua invece a volteggiare in questo tuo mondo incantato dove non vi sono confini tra la realtà e fantasia che sfuma la realtà come un sogno lontano...

Firuzeh

Un deserto dell'anima: l'ipocrisia

Ti guardi attorno e credi di conoscere delle realtà. Te ne hanno parlato a lungo; hai verificato che quel che ti hanno detto è o sembra essere la verità. Poi all'improvviso vedi un quadro diverso e non capisci più quale sia la realtà. Allora ti viene in mente il vecchio concetto della 'facciata' che credevi sepolto da tempo nel XXI secolo; quella 'facciata' contro la quale in tempi lontani hai combattuto, quando era molto diffusa e frantumarla significava essere messi al bando. Non hai messo in conto che molto spesso l'ipocrisia è connaturata per alcuni esseri umani come una seconda pelle. Tentano di sbarazzarsene, ma non ce la fanno, spesso per opportunismo, per convenienza, per praticità, per routine. Trovo l'ipocrisia uno degli aspetti che più mi disturbano nel mio prossimo, ma devo ammettere che è molto più diffusa di quel che non si creda o non si veda e che comunque è pagante anche nella società odierna. Mi illudo che i giovani lo siano di meno di una classe di età più adulta ancora legata a schemi di un tempo che credevo passato. Se poi unisci all'ipocrisia un sano egoismo opportunista, allora il quadro è completo. Le sfaccettature di un essere umano sono molte. Realisticamente bisogna riconoscere che l'ipocrisia, sommamente utilizzata, comporta i suoi frutti, assai succosi spesso, e quindi "viva" l'ipocrisia e soprattutto chi sa utilizzarla da vero professionista, ben orientandosi tra una mezza verità e una mezza bugia.
Ecco perché poi me ne vado nel deserto dove solo il vento mi parla, mi urla nelle orecchie e il vento, da qualsiasi parte arrivi non è mai ipocrita, specialmente il khamsin, uno dei venti del deserto del Sahara. Mi fa girare la testa e mi solleva come la sabbia, e poi mi lascia scendere dolcemente a riprendere il mio cammino in un panorama sempre mutante e sempre uguale a se stesso. Potrebbe essere una buona soluzione avviarsi tra le dune e non tornare mai più indietro.
Firuzeh

Un dialogo divertente...ma vero

Attori: il Corpo (anni…dopo i 50) e la Mente.

Mente: “dunque, preparati che ora (sono circa le 20.00 di una normale serata) dobbiamo andare con amici al cinema o a teatro…”

Corpo: “sei scema; io di qui non mi muovo. Mi hai fatto fare la spesa, correre dietro vari autobus; mi hai portato in palestra e ora pretendi con una doccia, di portarmi in giro”

Mente: “ti prego; ho lavorato tutto il giorno tra casa, ufficio e computer. Comprendimi: ho voglia di svagarmi un po’; in fondo non è così difficile; solo un poco di buona volontà…e andiamo a rilassarci con un sano divertimento"

Corpo: “non se ne parla proprio. Fai una telefonata e disdici; la prossima volta, se hai velleità culturali serali, lasci stare la spesa, gli autobus e quel che ti pare, ma non la palestra: chiaro? Perché quella mi serve, più del pane. Mi dai un riposo pomeridiano e poi dopo posso darmi ad attività a tuo beneficio esclusivo. Capito?” [il solito egoismo maschile...nota dell'Autrice]

Il Corpo non andò al cinema e la Mente capì che doveva tener conto ormai dei voleri del Corpo, mentre prima non lo aveva quasi mai fatto: gli anni erano passati e aveva perso gran parte della sua autorità sul Corpo; ma rimanevano sempre amici cari legati a doppio filo e con buon senso potevano continuare ad andare d’accordo, come nel passato. E la Mente con dedizione davvero femminile dovette iniziare ad accettare i piccoli grandi egoismi del suo compagno.

Firuzeh

mercoledì 23 settembre 2009

In Africa

Etiopia, Addis Abeba, inizi anni settanta. Una grande voglia di fuggire da Roma e per studio riuscii ad andare ad Addis. In loco mi prestarono una Rover e io poi mi comprai una vecchia Fiat 1500 con cambio al volante e in seguito un fuoristrada russo, UAZ, anch'esso assai vetusto. Faceva lo 'shimmy', cioè entrava in vibrazione assurda raggiungendo i circa settanta chilometri orari, tenere il volante era una bella impresa, ma appena si superava quella velocità, la UAZ ritornava tranquilla...si fa per dire, perché rombava come un vecchio aereo bi-elica sul punto di esalare l'ultimo...giro!
La vecchia UAZ però ha fatto il suo servizio bene e mi ha portato su piste difficili, ha guadato fiumi, ha portato a caccia me e i miei amici. Che caccia poi? Beata gioventù: andavamo di notte a caccia di lepri con il faro della mia Uaz a illuminare il terreno. In questi casi lasciavo la guida ad altri, ma la mia mira era assolutamente 'fallibile'. Ricordo il primo sparo con il fucile prestato e il rinculo del colpo che mi piazzò seduta in modo violento sul sedile, io che spavaldamente stavo in piedi nonostante la vettura fosse in rapido movimento. Non ho mai preso una lepre e quindi mi rimisero alla guida, dove invece ci sapevo fare.
Un'altra volta, con amici uscimmo da Addis verso il confine con il Kenya, per andare a caccia e soprattutto vedere quello che noi chiamavamo 'il Lago degli Uccelli'. La fauna pennuta di questo lago era più che numerosa: il rumore era infernale; dovevamo urlare per sentirci fino al momento del tramonto. Un momento di rara magia: in poco più di un minuto il sole tramontava e in quello spazio di tempo brevissimo si passava dal suono delle voci degli uccelli al silenzio più spesso, più compatto. Le tenebre, arrivate con rapidità, avevano riportato l'assoluta calma sul lago. L'animo e la mente potevano rilassarsi e gli occhi guardare il cielo con animo quieto, godendo della bellezza di una natura particolare..
Dopo una battuta di caccia, con un buon numero di fucili in macchina, rientrammo in Addis, molto meravigliati di non trovare il consueto caos domenicale del rientro in città. Arrivammo a casa alla Salcost (il complesso della Salini Costruzioni), pronti a cambiarci per andare ad una cena elegante: fortuna volle che telefonammo per dire che eravamo in ritardo. La cena era stata annullata; il Negus era stato defenestrato ed era in vigore il coprifuoco...e noi non avevamo capito niente, tornando con beata incoscienza da un lungo week end fuori città, con armi nel bagagliaio della macchina. Non avevamo incontrato un posto di blocco; certo: tutto era stato troppo calmo, ma, ci dicemmo, guardandoci negli occhi: eppure abbiamo visto alcune biciclette andare tranquille! Ma ad un tratto ricordammo: avevamo sentito di notte strani colpi di tamburi nella boscaglia (dormivamo in tenda non troppo vicino al lago, con i fuochi accesi), colpi che erano quasi un botta e risposta; quel linguaggio però non ci apparteneva e non avevamo capito, anche se quel rincorrersi di segnali di tamburo ci aveva provocato un oscuro e forte senso di disagio.
Quella sera non uscimmo più. Poi la vita riprese nella sua routine, dove era entrato anche il coprifuoco, routine anch'esso. Perché poi quasi tutto diventa routine.
Firuzeh

domenica 20 settembre 2009

Il silenzio

Cerco da sempre il silenzio; non parlo solo di quello che trovo fra i boschi o sola di fronte all'Oceano Indiano...mi riferisco anche al 'silenzio parlato'. In questi giorni sto rifiutando di vedere telegiornali e vari salotti televisivi dove, per fare audience soprattutto, si parla di quel che è successo a Kabul... Ricordo bene quella strada che si percorreva obbligatoriamente per andare o venire dall'aeroporto...ricordo il ponte dove la strada si restringeva pericolosamente. Sotto il ponte vi era il letto di un fiume molto ampio, secco, solo con alcune pozze d'acqua dove i locali lavavano ogni giorno le loro macchine. Sarebbe stato divertente fare qualche foto, ma sapevo benissimo che proprio lì non ci si poteva fermare perché l'attacco poteva essere facile. Qualcuno, un civile come me, sul mezzo, chiese appunto di fermarsi per fotografare e gli fu risposto come si doveva in modo duro non siamo in franchigia!
Quando si usciva solo con una macchina per vedere o intervistare qualcuno, le strade che facevamo erano sempre diverse, ma con altri mezzi, era difficile evitare sempre 'quella lunga trafficata strada obbligata' per certi percorsi e ricordo come era difficile evitare che nel caotico traffico afgano qualche vettura si introducesse nel convoglio militare.
Chi ci accompagnava non faceva quasi mai trapelare nervosismo, nemmeno quando andammo a visitare una prigione per consegnare alle donne che erano lì ristrette alcuni regali: eravamo un piccolo convoglio, perché poi in seguito dovevamo recarci fuori Kabul. Il Direttore del carcere non era presente, nonostante fosse stato avvertito in precedenza. Siamo stati fermi ad aspettarlo per una mezz'ora circa. Come al solito non parlo mai in queste circostanze per pudico timore di dire sciocchezze 'militari', ma ricordo bene che passai quella mezz'ora con nervi a fior di pelle: quell'attesa di un qualcuno che era stato avvertito del nostro arrivo, mi piaceva assai poco, ma come al solito mi dicevo che..avevo una fantasia troppo attiva. Parlo una delle lingue degli afgani e cercavo disperatamente di comprendere quel che si diceva. L'interprete locale parlava un inglese molto approssimativo e per quel poco che io riuscivo a capire, non mi sembrava proprio che traducesse tutto e letteralmente.
Arrivò poi il Direttore, con una divisa nuova o quasi di zecca, del tipo rutilante come un albero di Natale, e allora capii forse l'origine del ritardo.... Entrammo nelle carceri e tirai un sospiro di sollievo.
Oggi che nella mia mente si affollano tanti ricordi cerco il silenzio. Non guardo la televisione; non riesco quasi nemmeno a parlare con chi condivisi tante esperienze.
Domani è un altro giorno, ma la cicatrice si è riaperta e il dolore affatica di nuovo il mio cuore.
Firuzeh


venerdì 18 settembre 2009

Seconda lettera alla 'Signora'

Gentile Signora, ieri Lei ha spuntato dal Suo elenco, tra gli altri, anche sei nomi di quella lista 'speciale' che tiene in serbo, quella dove l'età e la malattia non contano.
Li chiamiamo da tempo 'soldati di pace' perché è politically correct, senza renderci (o forse ce ne rendiamo perfettamente conto, ma vince l'ipocrisia) che questa dizione è una contraddizione in termini. Mi sono sempre chiesta poi dove era la pace in Iraq e in Afghanistan; dove è in quella lontana terra? Dove le Voci, che non si sentono, gridano invece con violenza 'guerra...guerra...guerra' !
Lei, cara Signora, che conosce ogni dettaglio della mia vita, essendone ormai l'unica padrona, sa quanto io ami quelle regioni e come il mio cuore soffra anche per quei poveretti di lingua dari, pashtun che Lei ha deciso di cancellare dal suo elenco generale.
Ma come già ebbi a dirLe, comprendo che Lei ne sa più di me e mi inchino ai Suoi voleri.
So che Lei non ha pietà per nessuno: forse per questo nella tradizione artistica del nostro Bel Paese e in altri anche, viene raffigurata piuttosto 'scheletrica' con una falce in mano, spettrale, tetra. Forse è proprio così, ma io amo raffigurarLa - considerato che amiamo le rappresentazioni antropomorfiche - come una Signora, severa certamente, ma gentile che può donare alla fine la vera pace, anche con un sorriso. A volte dopo molte sofferenze, altre rapidamente.
Ora, Signora, ho bisogno ancora di tempo: devo riuscire a perdonare chi mi ha fatto molto male, dicendo per altro che non avrebbe 'voluto' farmi questo, ma agendo con superficialità e egoismo...come un normale essere umano, con le sue debolezze e le sue grandi fragilità. So di essere più forte, ma devo soprattutto riconciliarmi con me stessa, con quel perdono che ancora mi rimane difficile dare.
Il Suo aiuto consiste solo nel darmi tempo: quello che Lei vuole e reputa giusto, nella Sua saggezza. Sono sempre una Sua devota 'amministrata', ma
non ancor Sua,
Firuzeh


giovedì 17 settembre 2009

Oggi non posso tacere

Oggi veramente non posso tacere di fronte a quanto successo in Afghanistan. Si rinnova un dolore profondo, vissuto in prima persona nel 2003. Si crede di aver definito per sempre una cicatrice, come se si fosse potuto passare del silicone sigillante sopra una ferita, invece quella si riapre e continua a sanguinare. Ti chiedi perché e allora inizi a telefonare a tutto coloro che in quel momento ti furono vicini o con i quali hai compartito quelle vicende. E non sai il motivo per il quale lo fai: forse perché solo loro possono capire quello che tu senti in questo momento risentendo ambulanze, vedendo volti di soldati fieri ma attoniti, come lo eri tu in quel momento. E soprattutto non capisci perché: sei uno storico, hai vissuto in mezzo a loro, ne parli la lingua e...non riesci a comprendere molte 'cose' e pensi che non è veramente giusto e leale un tributo come questo...perché non capire dove e come stiamo sbagliando? Tu hai le tue idee, ma non le puoi esporre...tanto ti direbbero che sei tu che sbagli.
E allora mi tengo le mie idee e il mio dolore profondo dentro di me; ma da storico capisco che questo è il karma della politica. Lo è sempre stato e così sarà per quella terra di 'mezzo' che è l'Afghanistan.
Firuzeh